TRIBUNALE ORDINARIO DI RAVENNA 
                           Sezione civile 
                           Settore lavoro 
 
    Il giudice del lavoro Dario Bernardi a scioglimento della riserva
assunta  in  data  di  ieri,  pronuncia  la  seguente  Ordinanza   di
rimessione della questione della legittimita' costituzionale del  18,
settimo comma, legge n. 300/1970 (statuto dei lavoratori). 
 
                               Motivi 
 
1 - Fatto e processo a quo. 
    Con ricorso CSF Europe  S.r.l.  proponeva  opposizione  ai  sensi
dell'art. 1, comma 51 della legge n. 92/2012 avverso l'ordinanza che,
a conclusione della prima fase del c.d. rito Fornero, aveva  disposto
la reintegra di Maurizio Patrizi, licenziato tre  volte nel  giro  di
alcuni mesi, una delle quali per giustificato  motivo  oggettivo,  le
altre per giusta causa. 
    In particolare: 
      1. il primo e' un licenziamento per giusta causa:  procedimento
disciplinare iniziato  con  missiva  del  9  ottobre  2018,  sanzione
comminata con missiva del 22 ottobre 2018; 
      2. il secondo  e'  un  licenziamento  per  giustificato  motivo
oggettivo: procedura iniziata con la comunicazione preliminare del 12
ottobre 2018; licenziamento comminato con  missiva  del  22  novembre
2018; 
      3. il terzo  e'  ancora  un  licenziamento  per  giusta  causa:
procedimento disciplinare iniziato con missiva del 28  gennaio  2019;
sanzione comminata con missiva del 12 febbraio 2019. 
    In questa  sede  di  opposizione  CSF  Europe  S.r.l.  concludeva
domandando «Si chiede che l'ill.mo  Tribunale  -Giudice  del  lavoro-
adito competente per la fase di opposizione ex  art.  1,  comma  51°-
57°, legge n. 92/2012, contrariis rejectis e previa ogni declaratoria
meglio  vista,  voglia,  in  riforma  della  ordinanza   opposta,   -
respingere siccome  infondate  in  fatto  e  in  diritto  le  domande
proposte nella precedente fase dal ricorrente nei confronti della CFS
Europe S.p.a. e, pertanto, rigettare il ricorso e le  domande  tutte,
anche successivamente proposte; condannare conseguentemente  il  sig.
Maurizio Patrizi alla restituzione in favore della CFS Europe  S.p.a.
della  somma  a  lui  corrisposta,  come  documentato  in  atti,   in
esecuzione della ordinanza qui opposta,  provvisoriamente  esecutiva,
ovvero per i titoli  ad  essa  conseguenti  per  un  totale  di  euro
94.495,10 (pari a un lordo di euro 128.355,00)  oltre  a  quelle  che
dovesse ulteriormente corrispondere  per  lo  stesso  titolo,  ovvero
della diversa somma e del diverso titolo che eventualmente risultera'
dovuto,  con  i  conguagli  fra  le  diverse  poste   che   dovessero
necessitare, con interessi e rivalutazione dal dovuto al  saldo;  nel
caso di accoglimento di taluna domanda dell'odierno  opposto,  voglia
comunque (salvo gravame) limitarla ai minimi indennitari». 
    CSF  Europe  S.r.l.  precisava  nell'atto  di  non  impugnare  le
statuizioni  contenute  nell'ordinanza  opposta  relativamente   alle
decisioni sui due licenziamenti per giusta causa  ritenuti  in  prime
cure illegittimi,  con  la  conseguenza  che  l'oggetto  attuale  del
giudizio rimane  esclusivamente  il  licenziamento  per  giustificato
motivo oggettivo. 
    Maurizio Patrizi si costituiva con memoria proponendo una domanda
riconvenzionale,   anche   in   punto   di   esatta    determinazione
dell'indennita'  allo  stesso  spettante  in  seguito   all'esercizio
dell'opzione in luogo della effettiva reintegra  («...condannare  CFS
al pagamento della somma di euro 8.977,50 a titolo  integrazione  per
la opzione esercitata dal sig. Patrizi alla reintegra  nel  posto  di
lavoro»). 
2 - L'oggetto del giudizio di costituzionalita': la norma. 
    L'oggetto dell'ordinanza  di  rimessione  e'  l'attuale  versione
dell'art. 18, settimo comma, legge n. 300/1970, nella  parte  in  cui
tale disposizione regolamenta la massima tutela prevista  in  ipotesi
di licenziamento per giusta causa  che  venga  ritenuto  dal  giudice
viziato nella maniera piu' conclamata possibile. 
    La norma prevede, infatti, che il giudice possa «[Puo']  altresi'
applicare la predetta disciplina [ossia quella di cui al quarto comma
dell'art. 18, ossia la tutela reale attenuata]  nell'ipotesi  in  cui
accerti la  manifesta  insussistenza  del  fatto  posto  a  base  del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo». 
3 - I parametri. 
    Si ritiene che tale disposizione ordinaria sia in  contrasto  con
alcuni parametri costituzionali. 
    In particolare si tratta delle seguenti disposizioni: 
      art.  3,  primo  comma  della  Costituzione,  con   riferimento
all'art. 18, quarto comma, legge n. 300/1970; 
      art. 41, primo comma, della Costituzione; 
      art. 24 della Costituzione; 
      art. 111, secondo comma della Costituzione. 
    Come si avra' modo di illustrare in seguito, alcuni  dei  profili
problematici della  disposizione  qui  in  oggetto  coinvolgono  piu'
parametri e, operando in modo incrociato, determinano,  al  contempo,
una lesione di due o piu' norme costituzionali (p.e. articoli 24 e 3,
primo comma; articoli 24 e 111, secondo comma, della Costituzione). 
4 - La questione. 
    Si dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo
comma, legge n. 300/1970 laddove prevede che, in ipotesi  in  cui  il
giudice accerti la  manifesta  insussistenza  di  un  fatto  posto  a
fondamento di un licenziamento per  G.M.O.,  «possa»  e  non  «debba»
applicare la tutela di cui al quarto comma  dell'art.  18,  ossia  la
tutela reintegratoria attenuata, in alternativa a quella  di  cui  al
quinto comma (risarcitoria). 
    La questione si pone con  riferimento  all'art.  3,  primo  comma
della Costituzione, all'art. 41 della Costituzione, all'art. 24 della
Costituzione e all'art. 111, secondo comma della Costituzione. 
    In sintesi si dubita che, gia' per il  solo  fatto  di  porsi  il
problema della reintegrabilita' o meno del lavoratore in  ipotesi  di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ordine al quale si
e' accertata in giudizio la manifesta  insussistenza  del  fatto,  si
violi la Suprema Carta in quanto: 
      si tratterebbero in modo ingiustificatamente  differenziato  (a
livello  di  tutele)  situazioni  del  tutto  identiche,   ossia   il
licenziamento per giusta causa e il  licenziamento  per  giustificato
motivo  oggettivo  dei   quali   si   sia   accertata   in   giudizio
l'infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza per il G.M.O.);
tale  differenza  di   tutele   sarebbe   determinata   dalla   mera,
insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare  in
un modo  o  nell'altro  l'atto  esplosivo  dallo  stesso  adottato  e
rivelatosi poi del tutto pretestuoso (art. 3, primo comma); 
      si verrebbe a conferire al giudice un potere di scelta di  tipo
squisitamente imprenditoriale, ossia ed essenzialmente, il potere  di
comminare un nuovo ed autonomo atto  espulsivo  in  relazione  ad  un
lavoratore che avrebbe dimostrato di  essere  stato  illegittimamente
licenziato e che  andrebbe,  altrimenti,  reintegrato  nel  posto  di
lavoro (art. 41 della Costituzione); 
      si verrebbe a pregiudicare il diritto di agire in giudizio  del
lavoratore, posto che lo stesso si troverebbe  esposto  all'esercizio
di  una  facolta'  giudiziale  totalmente  discrezionale  (quella  di
decidere  se  espellere  un  lavoratore  che,  avendo  dimostrato  la
pretestuosita' del licenziamento, andrebbe  altrimenti  reintegrato),
senza essere posto nella facolta' di  difendersi  e  dovendo  subire,
proprio nel momento della tutela  dei  propri  diritti  (avendo  egli
dimostrato di essere stato licenziato manifestamente  ingiustamente),
il potenziale arbitrio (nella migliore delle ipotesi  l'esercizio  di
un  potere  imprenditorial-giudiziale)  di  chi  dovrebbe   tutelarlo
(reintegrandolo); 
      non  vi  sarebbe  un  giusto  processo   (cio'   che   richiede
l'esistenza di un giudice terzo, ossia «non parte») facendo  assumere
al giudice  il  ruolo  dell'imprenditore,  chiedendogli  di  adottare
un'opzione di gestione dell'impresa, qual e' un  atto  espulsivo,  in
alternativa alla altrimenti dovuto reintegra; 
5 - Rilevanza della questione. 
    La questione e' rilevante in quanto la norma censurata  viene  in
diretta ed immediata applicazione nel caso di specie,  posto  che  il
giudizio a quo verte su un licenziamento per G.M.O. in  relazione  al
quale, laddove fosse accertata (come peraltro  avvenuto  nella  prima
fase  del  rito  legge  n.  92/2012,  art.  1,  commi  47   ss.)   la
illegittimita' per (manifesta) inesistenza del fatto, dovrebbe essere
applicato  il  potere  discrezionale  giudiziale  di   scegliere   se
reintegrare o meno il lavoratore (e, dunque, se applicare il quarto o
il quinto comma dell'art. 18). 
    La data di assunzione del ricorrente (anno 2001, anteriore  al  7
marzo 2015)  e  i  requisiti  dimensionali  dell'impresa  (con  circa
cinquanta dipendenti in media) importano l'applicazione dell'art. 18,
legge n. 300/1970 (che, infatti, non e' in contestazione tra le parti
e non e' stata oggetto di specifico motivo di opposizione). 
    Va, inoltre, evidenziato che, nel caso di specie, il  lavoratore,
all'esito della prima fase per lui vittoriosa del giudizio  ex  legge
n. 92/2012, art. 1, commi 47 ss., avendo egli ottenuto la  reintegra,
ha  esercitato  il  diritto  di  optare  per  l'indennizzo  monetario
(quindici mensilita'), trasformando la reintegra in  un  risarcimento
del danno. 
    Non si puo' qui ritenere che l'esercizio di tale  opzione  valga,
in senso contrario, a privare di rilevanza la questione nel  giudizio
a quo, posto che, comunque, anche la scelta tra l'applicazione  della
tutela del quinto e quella del quarto comma «indennitarizzata»  dalla
scelta del lavoratore, conduce a  conseguenze  diverse  in  punto  di
quantum risarcitorio e, dunque, conserva, comunque, una  specifica  e
decisiva rilevanza. 
    Infatti,  solo  applicando  il  quarto  comma   al   risarcimento
ordinario andrebbe aggiunto il quid pluris  di  risarcimento  proprio
della  monetizzazione  della  reintegra,  altrimenti  non   spettante
nell'ipotesi del quinto comma. 
    Evidentemente, nemmeno  puo'  rilevare  in  senso  ostativo  alla
rilevanza della questione la circostanza che  la  tutela  del  quarto
comma sia stata gia' concessa all'esito della prima fase,  posto  che
l'esito della fase che si conclude con sentenza  del  Tribunale  puo'
bene essere di segno opposto rispetto a quella che  si  conclude  con
ordinanza, potendo tale giudizio avere la stessa estensione oggettiva
del giudizio  di  prime  cure  ed  essendo  nello  stesso,  pertanto,
pienamente (ed anzi doverosamente) riesaminabile la  questione  della
scelta dell'applicazione del quarto o del quinto comma ai  sensi  del
comma 7 dell'art. 18. Come visto, CFS Europe S.r.l. ha  impugnato  la
statuizione relativa al licenziamento per G.M.O., che  residua  quale
oggetto del giudizio a quo. 
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale,   pertanto,   e'
sicuramente rilevante nel giudizio a quo. 
6 - L'impossibilita' di una interpretazione adeguatrice. 
    La norma di legge (settimo comma)  e'  chiara  e  inequivoca  sul
punto, prevedendo espressamente un potere discrezionale  in  capo  al
giudice (il giudice "Puo' altresi' applicare la  predetta  disciplina
[ossia quella di cui al quarto comma dell'art. 18,  ossia  la  tutela
reale  attenuata]  nell'ipotesi   in   cui   accerti   la   manifesta
insussistenza  del  fatto  posto  a  base   del   licenziamento   per
giustificato motivo oggettivo). 
    L'interprete deve, inoltre,  tenere  conto  che,  in  ipotesi  di
licenziamento per giusta causa del quale si  accerta  l'insussistenza
del fatto, il legislatore prevede al quarto  comma  l'obbligatorieta'
della sanzione della reintegra, quale unica tutela  prevista  per  il
lavoratore in ipotesi in cui si accerti  in  giudizio  che  il  fatto
imputatogli dal datore di lavoro non sussista. 
    Il quarto comma, infatti, testualmente recita «Il giudice,  nelle
ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato
motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di  lavoro,
per insussistenza del fatto contestato ... annulla il licenziamento e
condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di  lavoro
di cui al primo comma». 
    Deve muoversi dalla premessa che il legislatore ha voluto  creare
(si tratta della peculiarita' della riforma dell'art. 18 di cui  alla
legge n. 92/2012) una serie di diversi rimedi per  diversi  vizi  del
licenziamento, prevedendo  varie  e  diversificate  tutele,  talvolta
reintegratorie,  talvolta  risarcitorie  e,   tra   queste,   diverse
graduazioni dell'entita' del risarcimento del danno. 
    E nel fare questo ha espressamente differenziato la tutela per il
GMO da quella per la GC. 
    Prevedendo, come appena evidenziato, una  facolta'  di  reintegra
per il primo caso e un obbligo di reintegra nel secondo caso. 
    A  fronte  di  tale  dato  letterale  insopprimibile,   la   sola
interpretazione adeguatrice sarebbe una  interpretazione  chiaramente
abrogatrice di un  chiaro  precetto  normativo,  opzione  ermeneutica
incompatibile   con   il   modello   accentrato   di   verifica    di
costituzionalita' di cui alla Suprema Carta. 
    Anche la Corte di cassazione ha  ritenuto  impossibile  (peraltro
proprio  in  relazione  alla  locuzione  in  oggetto)  procedere   ad
interpretazioni  che  prescindano  dal  dato  letterale,  in   quanto
sostanzialmente abrogatrici della norma di legge in esame  («7.2.  Il
sistema  legislativo  di  graduazione  delle   sanzioni   applicabili
prevede, inoltre, che il giudice che ritenga evidente la  carenza  di
uno degli elementi costitutivi  del  licenziamento  per  giustificato
motivo oggettivo  possa  ordinare  la  reintegrazione  nel  posto  di
lavoro.  Nello  schema  legislativo  e'  previsto,  infatti,  che  il
licenziamento fondato su fatti  manifestamente  insussistenti  «Puo'»
essere assoggettato a sanzioni diverse, la reintegrazione  nel  posto
di lavoro (comma 4 dell'art. 18 della legge n. 300 del  1970)  oppure
il risarcimento del danno  (comma  5  della  medesima  norma),  e  la
soluzione esegetica da privilegiare non puo' prescindere  dal  tenore
lessicale  della  non  potendosi  condividere  interpretazioni  (cfr.
Cassazione n. 17528 del 2017) che  privino  di  significato  il  dato
letterale» (Cassazione n. 10435/2018). 
    La  stessa  giurisprudenza  di  legittimita'  maggioritaria   ha,
conseguentemente, ritenuto di dare un contenuto alla disposizione  in
questione, individuando - in assenza di criteri  applicativi  interni
alla disposizione - un vero e proprio statuto al quale il giudice  di
merito deve fare riferimento ed imponendo, pertanto,  a  quest'ultimo
l'utilizzo del potere discrezionale previsto  dalla  disposizione  in
questione («L'applicazione della tutela reale  richiede,  quindi,  un
ulteriore  vaglio  giudiziale.  La   legge   non   fornisce   nessuna
indicazione  per  stabilire  in  quali  occasioni  il  giudice  possa
attenersi al  regime  sanzionatorio  piu'  severo  o  a  quello  meno
rigoroso ma dovendo, la scelta di tale alternativa,  essere  motivata
dal  giudice,  si  impone  all'interprete  lo  sforzo  esegetico   di
individuare i criteri in base ai quali il potere discrezionale  possa
essere esercitato. Il criterio che consenta al giudice di esercitare,
secondo  principi  di   ragionevolezza,   il   potere   discrezionale
attribuito dal legislatore puo' essere desunto dai principi  generali
forniti dall'ordinamento in materia di risarcimento del danno, e,  in
particolare, dal concetto di eccessiva onerosita' al quale il  codice
civile  fa  riferimento  nel  caso  in  cui  il  giudice  ritenga  di
sostituire il risarcimento per  equivalente  alla  reintegrazione  in
forma specifica (art. 2058 del codice civile,  applicabile  anche  ai
casi di responsabilita' contrattuale, cfr. Cassazione  n.  15726  del
2010, Cassazione n. 4925 del  2006,  Cassazione  n.  2569  del  2001,
Cassazione n. 582 del 1973) ovvero  di  diminuire  l'ammontare  della
penale concordata tra le parti  (art.  1384  del codice  civile).  Il
ricorso  ai  principi  generali  del  diritto  civile   permette   di
configurare un parametro di riferimento per  l'esercizio  del  potere
discrezionale del giudice, consentendogli di valutare - per la scelta
del regime sanzionatorio da applicare - se la  tutela  reintegratoria
sia,  al  momento   di   adozione   del   provvedimento   giudiziale,
sostanzialmente incompatibile con la  struttura  organizzativa  medio
tempore  assunta  dall'impresa.  Una  eventuale  accertata  eccessiva
onerosita' di ripristinare il rapporto  di  lavoro  puo'  consentire,
dunque, al giudice  di  optare  -  nonostante  l'accertata  manifesta
insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del  licenziamento
- per la tutela indennitaria»: Cassazione n. 10435/2018). 
    L'orientamento in questione e' stato confermato dalle  successive
Cassazioni   n.   2930/2019   («L'ipotesi   del   licenziamento   per
giustificato   motivo   oggettivo   insussistente    trova    infatti
inquadramento, rispetto ai rapporti di lavoro cui trova  applicazione
il vigente testo dell'art. 18, legge  n.  300/1970,  in  due  diverse
fattispecie. Esse sono  caratterizzate,  l'una,  dalla  semplice  non
ricorrenza degli "estremi del predetto giustificato motivo obiettivo"
e, l'altra, dalla "manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento", che ha l'effetto, ove  ricorrente,  di  rimettere  al
giudice  la  decisione  in  ordine  all'applicazione   della   tutela
reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4 cit., sulla  base  di  una
valutazione discrezionale ("puo'") da svolgere (Cassazione  2  maggio
2018, n. 10435) in forza dei principi generali in tema di  tutela  in
forma specifica e non eccessiva onerosita' della  stessa  (art.  2058
del codice civile) ed applicandosi altrimenti, pur nel palesarsi  del
vizio di maggiore gravita', la sola tutela  indennitaria  di  cui  al
comma 5. Il predetto quadro normativo e'  stato  del  tutto  ignorato
dalla Corte d'appello e da cio' deriva l'accoglimento dei motivi  ora
in esame, con rinnessione al giudice del rinvio della  corrispondente
valutazione  differenziale.  Tale   valutazione,   completandosi   il
ragionamento sopra svolto, dovra' peraltro muovere dalla  ragione  di
illegittimita' del licenziamento consistente  nell'insussistenza  dei
motivi addotti con l'atto di recesso, in  quanto  come  si  e'  detto
giuridicamente  prevalente  ed  assorbente,  mentre  ogni   ulteriore
profilo fattuale non potra'  che  rilevare  quale  mero  elemento  di
contesto, al fine di verificare  complessivamente,  con  accertamento
demandato al giudice  del  merito,  se  ricorrano  i  presupposti  di
«evidente  e  facilmente   verificabile   assenza   dei   presupposti
giustificativi del licenziamento» e  di  «chiara  pretestuosita'  del
recesso»  (cosi'  sempre  Cassazione  n. 10435/2018)  che  consentano
eventualmente   di   addivenire,    subordinatamente    all'ulteriore
valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosita'  del
rimedio, alla tutela (anche) reintegratoria; applicandosi  altrimenti
la sola tutela risarcitoria di cui al comma 5 del citato art. 18") e,
seppure a livello di obiter dictum,  Cassazione  n.  32159/2018  ("La
"manifesta insussistenza" va riferita ad una evidente,  e  facilmente
verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a
fronte della quale il giudice puo' applicare la disciplina di cui  al
comma 4 del medesimo art. 18 ove tale regime  sanzionatorio  non  sia
eccessivamente oneroso per il datore di lavoro (Cassazione  n.  10435
del 2018)». 
    L'orientamento contrario, che appare  numericamente  minoritario,
e' stato sostenuto da alcuni precedenti di Cassazione (n.  7167/2019,
secondo la quale «5. Ne consegue  che  l'espressione  "puo'  altresi'
applicare", che compare al principio della disposizione in esame, non
assegna al giudice un margine ulteriore di discrezionalita' (tra casi
reputati meritevoli della piu' severa sanzione per  la  loro  estrema
gravita' e casi che, pur rivelandosi compresi anch'essi nell'identico
e comune ambito di eccezione, non siano considerati tali), posto che,
ove il fatto sia caratterizzato dalla "manifesta  insussistenza",  e'
unica,  e  soltanto  applicabile,  la   protezione   del   lavoratore
rappresentata dalla disciplina di cui al comma  4»),  ma  non  appare
suscettibile di essere seguito, in quanto propone una interpretazione
essenzialmente abrogativa di un testuale elemento normativo. 
    L'esistenza di tale ultimo orientamento non esclude - a parere di
chi  scrive  -   l'ammissibilita'   della   presente   questione   di
legittimita' costituzionale. 
    Escludendo, infatti, la possibilita' di rimettere alla Corte tale
questione, il giudice sarebbe chiamato a  conferire  alla  norma  due
interpretazioni     possibili,     entrambe     tuttavia     ritenute
incostituzionali. 
    La prima, applicando l'orientamento maggioritario della S.C.,  lo
porterebbe a quel  giudizio  discrezionale  sulla  reintegra  che  si
ritiene in contrasto con gli articoli 3, 41 e 24 della Costituzione 
    La seconda, «abrogando» il «puo'» di cui  al  settimo  comma,  lo
porterebbe al diretto contrasto con il sistema di  garanzie  previsto
dal titolo VI, sezione I della Carta costituzionale ed in particolare
con il sistema accentrato di controllo di costituzionalita'  ispirato
al modello kelseniano. 
    Non  si  e',  pertanto,  in  presenza  di   una   pluralita'   di
orientamenti interpretativi tutti parimenti  sostenibili,  dai  quali
sceglierne uno non  in  contrasto  con  la  Costituzione  (cio'  che,
effettivamente, importerebbe l'inammissibilita' di una q.l.c.). 
    Un'ultima notazione in punto di interpretazione adeguatrice. 
    La norma, come visto, nasce «in bianco», ossia del tutto priva di
criteri applicativi. 
    E, come visto, parte della giurisprudenza della S.C.  ha  tentato
di  applicare  criteri  generali  al  fine   di   disciplinare   tale
disposizione ed il potere che la stessa prevede. 
    Nel fare cio', tale giurisprudenza, a parere di  chi  scrive,  ha
essenzialmente  introdotto,  all'interno  di   una   fattispecie   di
accertamento giudiziale su  di  un  atto  di  autonomia  privata  (il
licenziamento), la facolta' per il giudice di comminare un  ulteriore
licenziamento per G.M.O.  sulla  base  di  fatti  diversi  da  quelli
(pretestuosi) posti a fondamento del  licenziamento  impugnato  e  ad
esso addirittura sopravvenuti. 
    Puo' ritenersi che tale interpretazione - mediante il richiamo ai
principi generali in tema di risarcimento in forma specifica -  fosse
l'unica praticabile. 
    Con la conseguenza  che  non  sussiste  la  possibilita'  di  una
ulteriore interpretazione adeguatrice della  disposizione,  sotto  il
punto  di  vista  dei  criteri  ai  quali  il  giudice  deve  rifarsi
nell'esercizio del potere di scegliere se reintegrare o meno. 
    Resta evidente il fatto che anche  laddove  tale  interpretazione
(come  detto,  probabilmente  l'unica   possibile)   dovesse   essere
abbandonata,  per  le  conseguenze  alle  quali  la  stessa   giunge,
l'assenza di criteri normativi interni  all'art.  18,  settimo  comma
varrebbe   comunque   ad   importare   l'incostituzionalita'    della
disposizione la quale andrebbe a conferire un vero e  proprio  potere
imprenditoriale al giudice,  il  potere  di  licenziare,  per  giunta
completamente sganciato da ogni  criterio  applicativo,  introducendo
cosi' una sorta di licenziamento giudiziale ad nutum (si tratterebbe,
dunque, di un potere di gestione imprenditoriale addirittura maggiore
rispetto a quello riservato dalla legge all'imprenditore stesso). 
    Le considerazioni che seguono, pertanto, saranno da riferire  non
solo all'art. 18, settimo comma nella versione datane  dall'indirizzo
maggioritario della S.C., ma ad ogni  possibile  interpretazione  che
dovesse essere adottata in relazione a tale  disposizione.  Peraltro,
con riferimento al  vizio  di  cui  all'art.  3,  primo  comma  della
Costituzione, e' del tutto  irrilevante  che  i  criteri  ermeneutici
siano previsti dalla norma  o  che  siano  stati  introdotti  in  via
interpretativa dalla giurisprudenza, posto che quello che  rileva  e'
esclusivamente la irragionevole  disparita'  di  trattamento  di  due
situazioni uguali (licenziamento del tutto ingiustificato,  sia  esso
stato  intimato  per  G.C.  o  per  G.M.O.).  Analogamente,  per   le
violazioni dell'art. 24 e 111, secondo comma della  Costituzione,  e'
del tutto irrilevante quali criteri  il  giudice  debba  prendere  in
considerazione per esercitare tale potere  discrezionale,  posto  che
vengono in discussione ragioni ed esigenze di difesa in giudizio e di
giusto processo in relazione al meccanismo di cui  al  settimo  comma
dell'art. 18. 
7 - La non manifesta infondatezza della questione. 
  1° Vizio: contrasto con art. 3, primo comma della costituzione. 
    Tertium comparationis: 
      art.  18,  quarto  comma  statuto  dei  lavoratori,  ossia   la
disciplina prevista per il licenziamento per giusta causa. 
    Ai sensi di tale disposizione: «Il giudice, nelle ipotesi in  cui
accerta  che  non  ricorrono  gli  estremi  del  giustificato  motivo
soggettivo o della giusta causa addotti dal  datore  di  lavoro,  per
insussistenza del fatto contestato ovvero perche'  il  fatto  rientra
tra le condotte punibili con una  sanzione  conservativa  sulla  base
delle  previsioni  dei  contratti  collettivi   ovvero   dei   codici
disciplinari applicabili, annulla  il  licenziamento  e  condanna  il
datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro  di  cui  al
primo comma e al pagamento di un'indennita' risarcitoria  commisurata
all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
sino  a  quello  dell'effettiva  reintegrazione,  dedotto  quanto  il
lavoratore  ha  percepito,  nel  periodo  di  estromissione,  per  lo
svolgimento di altre attivita'  lavorative,  nonche'  quanto  avrebbe
potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una  nuova
occupazione. In ogni caso la misura dell'indennita' risarcitoria  non
puo' essere superiore a dodici mensilita' della retribuzione  globale
di fatto. Il datore di lavoro e' condannato, altresi', al  versamento
dei  contributi  previdenziali  e  assistenziali   dal   giorno   del
licenziamento  fino  a   quello   della   effettiva   reintegrazione,
maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione  di
sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al
differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe
stata  maturata  nel  rapporto  di  lavoro  risolto  dall'illegittimo
licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello
svolgimento di altre  attivita'  lavorative.  In  quest'ultimo  caso,
qualora i contributi afferiscano  ad  altra  gestione  previdenziale,
essi   sono   imputati   d'ufficio   alla   gestione   corrispondente
all'attivita'  lavorativa  svolta  dal  dipendente  licenziato,   con
addebito  dei  relativi  costi  al  datore  di  lavoro.   A   seguito
dell'ordine di reintegrazione,  il  rapporto  di  lavoro  si  intende
risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro  trenta
giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in  cui  abbia
richiesto l'indennita' sostitutiva della reintegrazione nel posto  di
lavoro ai sensi del terzo comma». 
    Tale disposizione va,  dunque,  confrontata  con  quella  qui  in
esame, ai sensi della quale il giudice «Puo'  altresi'  applicare  la
predetta disciplina [ossia quella di cui al  quarto  comma  dell'art.
18, ossia la tutela reale attenuata] nell'ipotesi in cui  accerti  la
manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento  per
giustificato motivo oggettivo». 
    Il   confronto   permette   di   evidenziare    un    trattamento
irragionevolmente discriminatorio tra situazioni identiche. 
    Si tratta  in  entrambi  i  casi  di  fattispecie  estintive  per
volonta' datoriale. 
    Si  tratta  di  due   regimi   sanzionatori   entrambi   relativi
all'ipotesi di accertamento in giudizio  dell'inesistenza  del  fatto
posto a fondamento del licenziamento. 
    Dunque, due licenziamenti in ordine ai quali e'  stato  accertato
che manca del tutto il fondamento, la ragione giustificativa. 
    Nel caso del GMO, inoltre,  l'accertamento  dell'inesistenza  del
fatto e' processualmente aggravata dalla necessita' di  un  metro  di
valutazione  delle  prove  secondo  il  parametro  della   «manifesta
insussistenza» (in luogo del piu' favorevole regime valevole in  tema
di giusta causa, secondo il metro  di  giudizio  della  preponderanza
probatoria propria del rito civile), cio' che permette di qualificare
l'iniziativa datoriale  come  del  tutto  pretestuosa  («In  tema  di
licenziamento per giustificato motivo  oggettivo,  ricorre  l'ipotesi
della  "manifesta  insussistenza  del  fatto",  di  cui  al  comma  7
dell'art. 18, st. lav., come novellato dalla legge n.  92  del  2012,
allorche' il nesso  causale  tra  il  riassetto  organizzativo  e  la
soppressione del posto di lavoro occupato dal  lavoratore  licenziato
sia eliso da una  condotta  datoriale  obiettivamente  e  palesemente
artificiosa ...»: Cassazione n. 7167/2019). 
    Tra  un  licenziamento   per   G.M.O.   fondato   su   un   fatto
(manifestamente) inesistente e un licenziamento per G.C.  fondato  su
un  fatto  (semplicemente)  inesistente  non  vi  e'  una  differenza
ontologica, naturalistica. 
    E' solo la  volonta'  del  datore  di  lavoro  a  qualificare  un
licenziamento per G.C. o per G.M.O. 
    E tale mera e insindacabile (alla fonte) volonta'  datoriale  non
puo' fondare la  differenza  di  trattamento  tra  due  licenziamenti
entrambi fondati su fatti accertati come inesistenti. 
    Qui la norma di legge ha errato nel porre  a  fondamento  di  una
distinzione  estremamente  rilevante  in  punto  della   tutela   del
lavoratore, non gia' una determinata tipologia di  vizio,  oppure  il
dato proveniente da un accertamento oggettivo compiuto  dal  giudice,
bensi' una mera qualifica, una  etichetta,  che  solo  il  datore  di
lavoro puo' apporre al proprio atto. 
    Tale  etichetta  diventerebbe  intangibile,  anche  ex  post,  se
nemmeno l'accertamento da parte del giudice che il  motivo  oggettivo
posto a fondamento dell'atto  espulsivo  era  pretestuoso,  fosse  in
grado  di  riavvicinare  (alla  foce),  le  tutele  previste  per  il
licenziamento per G.M.O. alle tutele previste  per  il  licenziamento
per G.C. 
    Non puo', dunque, essere (come al contrario avviene  nell'attuale
sistema dei commi quarto e settimo dell'art. 18) che la qualifica del
licenziamento come per giustificato motivo  oggettivo  ad  opera  del
datore di lavoro, anche nella prospettiva ex  post  dell'accertamento
dell'inesistenza del motivo  fondante  lo  stesso,  possa  continuare
comunque a regolarne gli effetti, importando una diversa  disciplina,
rispetto ai licenziamenti per giusta causa. 
    Ne consegue che un  licenziamento  di  cui  si  e'  accertata  in
giudizio l'insussistenza  del  fatto  fondante  e'  semplicemente  un
licenziamento privo di  giustificazione,  a  prescindere  dal  motivo
formale (giusta causa o giustificato  motivo  che  sia)  addotto  dal
datore di lavoro per giustificarlo. 
    Ne consegue, ancora, che  l'accertamento  dell'insussistenza  del
fatto deve condurre ad una considerazione unitaria del  fenomeno  del
licenziamento dal punto di vista sanzionatorio, senza possibilita' di
discriminare  tra  GC  e  GMO,   altrimenti   sarebbe   la   semplice
qualificazione data dal datore di lavoro al momento del licenziamento
a importare la scelta (da parte del datore di  lavoro)  della  tutela
esperibile  in  favore  del  lavoratore,  scelta   che   va   rimessa
esclusivamente alla legge (e che, ovviamente, deve essere  la  stessa
per vizi identici, ossia per licenziamenti il cui  fatto  costitutivo
sia stato dimostrato come del tutto infondato). 
    Nel sistema attuale,  al  contrario,  l'art.  18,  settimo  comma
prevede che sia sufficiente la qualifica data dal datore di lavoro al
proprio atto unilaterale espulsivo, per determinare di per se'  -  in
base alla legge che si assume  incostituzionale  -  e  a  parita'  di
inesistenza  dei  presupposti  legittimanti  il   licenziamento,   un
trattamento sanzionatorio deteriore (rispetto a quello  previsto  per
la G.C.) per il lavoratore, trattamento che  si  realizzata  mediante
l'applicazione di una serie di ostacoli  alla  sanzione  restitutoria
altrimenti applicabile in favore del lavoratore. 
    Con la conseguenza che risulta previsto dalla stessa disposizione
normativa un meccanismo elusivo, un escamotage, volto  a  penalizzare
ingiustificatamente le ipotesi di reintegra e che si  impernia  sulla
mera qualifica datoriale circa la natura di G.M.O. del licenziamento. 
    Il potere discrezionale di  scelta  tra  reintegra  e  indennizzo
risulta ancora meno giustificato  se  si  guarda  al  fatto  che,  in
alternativa alla reintegra che gli spetta, il lavoratore puo'  optare
(e spesso opta, potendo farlo addirittura con la stessa  proposizione
del ricorso introduttivo) per una tutela solo monetaria (opzione  per
quindici mensilita'). 
    Rendendo cosi' del tutto omogeneo, anche dal punto di vista della
forma risarcitoria, la tutela del quarto e del quinto comma dell'art.
18, richiamati  dal  settimo  comma  quali  alternative  da  disporsi
discrezionalmente ad opera del giudice. 
    Sempre il riferimento all'opzione (peraltro nel  caso  di  specie
puntualmente esercitata dal  lavoratore  successivamente  alla  prima
fase) e alla conseguente conversione  dell'obbligazione  restitutoria
in  monetaria,   rende   evidente   l'inapplicabilita'   di   criteri
applicativi (in relazione al potere discrezionale di reintegra) quale
l'eccessiva onerosita' della reintegra, considerato come  l'esercizio
dell'opzione  vale   a   rendere   potenzialmente   e   astrattamente
equivalente (salve le singole quantificazioni giudiziali  all'interno
delle forbici edittali) dal punto di vista monetario  la  tutela  del
quinto comma (nel massimo ventiquattro mensilita') rispetto a  quella
del quarto (retribuzione dalla data del licenziamento alla  pronuncia
col limite di  dodici  mensilita',  oltre  alle  quindici  mensilita'
dell'opzione). 
    L'esercizio   dell'opzione,   pertanto,   rappresenta,    proprio
nell'applicazione del criterio  discretivo  fornito  dalla  S.C.,  la
cartina al tornasole  che  conferma  l'irragionevolezza  del  sistema
complessivamente adottato, che  puo'  giungere  a  differenziare,  in
ragione di una «eccessiva onerosita' di ripristinare il  rapporto  di
lavoro», due tutele in definitiva parimenti indennitarie, diverse nel
solo quantum,  ma  fondate  sullo  stesso  identico  presupposto  del
licenziamento illegittimo  per  grave  mancanza  (insussistenza)  del
fatto posto a fondamento dello stesso. 
    Non   vi   puo'   essere,   infine,   argomentazione    contraria
all'irragionevolezza del trattamento discriminatorio  qui  in  esame,
sulla  base  della   discrezionalita'   dell'impiego   della   tutela
reintegratoria ad opera legislatore (il tema e' quello della mancanza
di copertura costituzionale per la reintegra). 
    Infatti,  nel  caso  di  specie   si   discute   di   trattamento
discriminatorio tra una ipotesi che riconosce la reintegra ed una del
tutto identica nei suoi elementi costitutivi, che (per il tramite del
giudice) la puo' arrivare a negare. 
    Ne discende che  se  il  legislatore  adotta  la  sanzione  della
reintegra per alcune ipotesi, deve accettare gli effetti che derivano
dall'inoculazione di una tale forma di tutela nel  sistema,  tra  cui
proprio la sottoposizione al vaglio costituzionale della creazione di
ingiustificati trattamenti differenziati tra situazioni identiche. 
    Nemmeno  puo'  esserci  argomentazione  contraria  fondata  sulla
diversita' del G.M.O. rispetto alla G.C., posto che, come detto, tale
differenza puo'  dirsi  sussistente  solo  in  ipotesi  in  cui  tali
motivazioni fondanti gli atti espulsivi  siano  sussistenti;  laddove
siano   risultate   (peraltro   gravemente   nel    settimo    comma)
insussistenti,  sono  da  qualificarsi  quali  meri  atti   datoriali
illegittimi, indistinguibili tra loro da alcun punto di vista. 
    Qui la violazione dell'art. 3,  primo  comma  della  Costituzione
(per essere due fenomeni uguali trattati in modo  ingiustificatamente
diverso) finisce per attingere anche l'art.  24  della  Costituzione,
posto che il diritto di azione  del  lavoratore  viene  ingiustamente
sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria,
di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla  mera  insindacabile
(nemmeno ex post) volonta' qualificatoria datoriale. 
    Proprio nel momento in cui  viene  in  essere  un  «licenziamento
pretestuoso» (e, dunque allorquando la tutela per chi ha subito  tale
grave illecito dovrebbe essere massima), il  diritto  di  azione  del
lavoratore e' ingiustificatamente e gravemente pregiudicato. 
    Con  una  scelta  che,  pertanto,  non  appare  rispettosa  della
Costituzione. 
    Un ultimo profilo, al riguardo, merita di essere evidenziato. 
    Si  tratta  della  disparita'  di  trattamento  sempre   tra   la
fattispecie del licenziamento per G.M.O. e quella  del  licenziamento
per G.C., disparita' veicolata dall'interpretazione (correttiva) data
dalla S.C. al fine di fornire i criteri  applicativi  della  facolta'
discrezionale di cui al settimo comma dell'art. 18. 
    Infatti, solo per un licenziamento pretestuoso  giustificato  dal
datore di lavoro con un (insussistente) giustificato motivo oggettivo
il giudice dovrebbe prendere in considerazione l'art. 2058 del codice
civile (come limite alla  reintegra),  mentre  nulla  di  tutto  cio'
dovrebbe fare  con  riferimento  ad  un  licenziamento  semplicemente
infondato e motivato sulla giusta causa. 
  2° Vizio: contrasto con art. 41, primo comma della Costituzione. 
    La previsione di  un  potere  discrezionale  (reintegrare  o  non
reintegrare), peraltro nell'assoluta mancanza di criteri normativi in
base ai quali orientare l'interprete nella scelta se applicare o meno
la  sanzione  della  reintegra,  concede   al   giudice   un   potere
essenzialmente assimilabile all'esercizio dell'attivita' di  impresa,
in violazione dell'art. 41, primo comma della Costituzione,  in  base
al quale l'iniziativa economica privata e' libera. 
    Non vengono qui in rilievo questioni di  limiti  alla  stessa  ai
sensi dei commi secondo e terzo dell'art. 41 («Non puo' svolgersi  in
contrasto con l'utilita' sociale o  in  modo  da  recare  danno  alla
sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana» e «La legge  determina
i programmi e i controlli  opportuni  perche'  l'attivita'  economica
pubblica e privata possa  essere  indirizzata  e  coordinata  a  fini
sociali»), posto che la disposizione qui censurata, in realta',  pone
limiti proprio ai limiti all'iniziativa economica privata. 
    Viola l'art. 41, primo comma anche l'eventualita' che  i  criteri
in questione siano forniti  in  via  interpretativa  ad  opera  della
giurisprudenza, anche di legittimita'. 
    Infatti ed anzi proprio  le  indicazioni  interpretative  fornite
dalla  S.C.  per  tentare  di  colmare  il   vuoto   siderale   della
disposizione de qua («puo'») inducono vieppiu' a  qualificare  quanto
dalla norma viene richiesto di fare al giudice come un vero e proprio
intervento (para)imprenditoriale. 
    Nella sostanza, una volta accertata l'insussistenza manifesta del
fatto posto alla base del licenziamento, viene chiesto al giudice  di
valutare  una  opzione  di  gestione  dell'impresa:  reintegrare   il
lavoratore, come avrebbe diritto nell'ipotesi del tutto speculare  di
mancanza di giusta causa, oppure espellerlo dall'azienda. 
    E nel fare cio', si chiede  al  giudice  di  procedere  (peraltro
d'ufficio, posto che le sentenze sopra richiamate di Cassazione hanno
cassato sentenze d'appello che avevano pretermesso una tale verifica)
ad una valutazione inerente alla  struttura  organizzativa  aziendale
(«valutare - per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se
la  tutela  reintegratoria  sia,   al   momento   di   adozione   del
provvedimento  giudiziale,  sostanzialmente  incompatibile   con   la
struttura organizzativa medio tempore assunta  dall'impresa»:  sempre
Cassazione n. 10435/2018). 
    Esattamente quello che l'art. 3 della legge  n.  604/1966  chiama
motivo oggettivo di licenziamento  («ragioni  inerenti  all'attivita'
produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento
di essa»). 
    L'atto espulsivo ulteriore, adottabile dal giudice all'esito  del
processo decisionale imposto dalla norma («puo'»),  conseguentemente,
altro non e' che un ulteriore e nuovo licenziamento per  giustificato
motivo oggettivo («incompatibile con la struttura organizzativa medio
tempore assunta dall'impresa») in piena regola, deciso  dal  giudice,
in luogo della reintegra prevista per altre situazioni identiche. 
    Non risulta, tuttavia, che il giudice possa sindacare  le  scelte
organizzative imprenditoriali. 
    Ne' tantomeno  che  possa  fare  scelte  organizzative  riservate
all'imprenditore. 
    Il modello adottato dalla Grundnorm all'art.  41  puo'  prevedere
esclusivamente che sia il  datore  di  lavoro,  nel  caso  di  mutato
assetto organizzativo «medio tempore assunto» a  potere  intimare  un
nuovo e successivo licenziamento  al  lavoratore  gia'  licenziato  e
reintegrato. 
    Non  si  vede  come  e  perche'  un  tale  atto,  ontologicamente
imprenditoriale,  dovrebbe  obbligatoriamente  essere  rimesso   alla
discrezionalita' del giudice, il cui ruolo e', piuttosto,  quello  di
verificare  ex  post  la   legittimita'   estrinseca   delle   scelte
imprenditoriali (come  detto,  senza  peraltro  potervi  entrare  nel
merito). 
    Ne consegue, ad avviso di chi scrive, che e' incostituzionale per
contrasto con l'art. 41, primo comma della  Costituzione  una  norma,
qual e' quella impugnata, che obbliga il giudice a dovere prendere in
considerazione, dopo avere accertato che un licenziamento e'  fondato
su un fatto inesistente, in luogo della reintegra  (che  la  legge  a
questo punto prevede, seppure come alternativa), di procedere  ad  un
ulteriore licenziamento,  da  fondare  su  valutazioni  dello  stesso
giudice e che, nella peggiore delle  ipotesi  (lettera  della  norma)
sono del tutto discrezionali (si potrebbe dire  «ad  nutum»),  mentre
nella migliore delle ipotesi (orientamento maggioritario della  S.C.)
vanno prese nel rispetto dell'art. 3 della legge n.  604/1966  ed  in
particolare concretizzano un ulteriore G.M.O. di licenziamento. 
    Dunque, la disposizione di cui all'art. 18, settimo comma,  legge
n.  300/1970  viola  l'art.  41,  primo  comma,  sia  nella  versione
letterale, sia  nella  versione  reinterpretata  dalla  S.C.  con  il
riferimento ai criteri di cui all'art. 2058 del codice civile. 
    Sia in ogni altra possibile versione della norma, che  non  fosse
abrogativa dello stesso potere qui in discussione. 
  3° Vizio: contrasto con l'art. 24 della Costituzione. 
    Alla luce di tutto quanto appena sopra  esposto,  nella  lunga  a
tortuosa strada che potrebbe portare alla  reintegra,  un  lavoratore
ingiustamente  licenziato  sulla  base  di  un   fatto   inesistente,
semplicemente perche' questo fatto e' stato qualificato dal datore di
lavoro come «oggettivo», si troverebbe  davanti  -  dopo  avere  gia'
dimostrato di avere ragione - un'ulteriore avversario: il giudice. 
    Un giudice  che,  al  termine  del  processo  istruito  e  deciso
sull'esistenza o meno della  motivazione  addotta  a  fondamento  del
licenziamento, dovrebbe vestire i panni del datore di lavoro,  andare
alla ricerca di  potenziali  ostacoli  alla  tutela  restitutoria  e,
quindi, valutare se e' il caso o meno - per il migliore funzionamento
dell'impresa - di licenziare nuovamente il lavoratore  in  luogo  che
reintegrarlo. 
    Tutto questo, peraltro, in uno scenario officioso, nel  quale  il
giudice  dovrebbe,  autonomamente,  instaurare  un  vero  e   proprio
processo alla reintegra. 
    Si  tratta,  evidentemente,  di  un  processo  (come  detto,   un
possibile nuovo licenziamento per G.M.O.), nel processo. 
    Un processo sul quale le parti possono (come e' anzi la regola in
questi  casi)  non  avere  speso  una  sola  argomentazione  fattuale
difensiva sulla questione. 
    Un processo incardinato d'ufficio ad  opera  non  di  una  parte,
bensi' dell'arbitro della contesa. 
    Peraltro, un processo pure potenzialmente complesso,  venendo  in
rilievo questioni organizzative aziendali e che, per  complessita'  e
necessita' di accertamenti, puo' anche superare (anche dal  punto  di
vista  della  durata,  oltre  che  degli  incombenti  istruttori)  il
processo al  licenziamento  (pretestuoso)  per  G.M.O.  intimato  dal
datore di lavoro. 
    Riepilogando,  un  lavoratore,  licenziato  sulla  base   di   un
giustificato motivo oggettivo del tutto  pretestuoso  (manifestamente
infondato) e che  cercasse  giustizia  in  Tribunale  impugnando  uno
specifico e determinato licenziamento, si troverebbe esposto  -  dopo
avere dimostrato di avere ragione ed in luogo di essere reintegrato -
ad un possibile ulteriore atto espulsivo, comminato  dal  giudice,  e
non dall'imprenditore, sulla base di motivi sopravvenuti e dei  quali
mai, in precedenza, e' stato messo al corrente. 
    Si ritiene, inoltre, che qui proprio la  fattispecie  sostanziale
oggetto  di  tutela  giurisdizionale  sia   stata   dal   legislatore
fraintesa, nel momento in cui la stessa viene resa  spuria,  mediante
l'introduzione di elementi del  tutto  nuovi  e  diversi  rispetto  a
quello che deve essere e restare l'esclusivo  oggetto  del  giudizio,
ossia il licenziamento. 
    Su tale secondo «licenziamento» per opera  del  giudice,  difetta
all'evidenza il rispetto  delle  regole  procedurali  in  materia  di
licenziamento (articoli 6 e 7, legge n. 604/1966), cosi' come difetta
l'azionabilita'  in  giudizio  (perlomeno  partendo  dal 1°   grado),
essendo la tutela rimessa esclusivamente ai gravami  giudiziali  (con
tutto quanto ne consegue, evidentemente, in  termini  di  diritto  di
difesa, di preclusioni processuali, di diritto alla prova, di  ambito
di operativita' del principio di non contestazione, etc.). 
    Dunque,  l'iniziativa  risolutoria  giudiziale,  incontra  enormi
problematiche di compatibilita' con il  diritto  delle  parti  ed  in
particolare del lavoratore,  di  potere  disquisire  ed  entrare  nel
merito della stessa, con lesione dell'art. 24 della Costituzione, che
al contrario prevede il diritto di tutti a potere agire in giudizio a
difesa dei propri diritti, nel caso di specie conculcati da una norma
che prevede una iniziativa giudiziale calata dell'alto, nel mezzo  di
un processo avente  un  altro  oggetto  e  del  tutto  imprevista  ed
imprevedibile nei contenuti. 
    Cio' determina una ulteriore ed evidente  questione,  incrociata,
di lesione dell'art. 3, primo comma della  Costituzione,  in  ragione
del   fatto   che   il   «licenziamento   ad   opera   del   giudice»
nell'applicazione  del  potere  discrezionale  di  cui  all'art.  18,
settimo comma (e che si e' detto  gia'  sopra  perche'  non  dovrebbe
nemmeno esistere), e' trattato in modo ingiustificatamente differente
e  deteriore  (si  pensi,  come  detto,   p.e.   all'abolizione   del
procedimento in tema di  G.M.O.  e  all'abolizione  di  un  grado  di
giudizio) rispetto ad ogni altro normale licenziamento  intimato  dal
datore di lavoro. 
    Un ulteriore profilo si verrebbe a porre, inoltre,  laddove  tale
«mutamento organizzativo medio tempore  intervenuto»  e  ostativo  al
licenziamento andasse, nel  frangente,  a  condurre  anche  ad  altri
licenziamenti per G.M.O., regolarmente intimati dal datore di lavoro. 
    A questo punto sarebbe evidente la disparita' di trattamento  tra
il  «licenziamento»  giudiziale  «in  corso  di  causa»  per   G.M.O.
sopravvenuto ex art. 18, settimo comma e gli  ordinari  ed  eventuali
licenziamenti comminati dall'imprenditore ed originati  dallo  stesso
«mutamento organizzativo medio tempore intervenuto». 
    Tali ultime argomentazioni, afferiscono  sia  all'art.  24  della
Costituzione (venendo  in  questione  un  contrasto  con  il  diritto
all'azione), sia all'art. 3, primo comma (posto che  la  lesione  del
diritto all'azione e' correlata  ad  una  disparita'  di  trattamento
ingiustificata rispetto al  regime  di  impugnazione  e  alle  tutele
previste contro i licenziamenti «ordinari», di iniziativa datoriale). 
    Dunque, nonostante tali  argomentazioni  siano  state  spese  nel
paragrafo dedicato all'art. 24 della Costituzione, le  stesse  devono
aversi  come  parimenti  riferite  all'art.  3,  primo  comma   della
Costituzione 
    Appare integrare una violazione dell'art. 24  della  Costituzione
anche la circostanza - gia'  esposta  in  relazione  alla  violazione
dell'art. 3, primo comma della Costituzione - che  la  norma  preveda
che cio' che rilevi, al fine di individuare le tutele del lavoratore,
sia il  mero  atto  qualificatorio  adottato  dal  datore  di  lavoro
dell'atto di licenziamento. 
    Senza che abbia alcun  effetto  l'accertamento  in  giudizio  che
quella definizione, quella etichetta, data dal datore  di  lavoro  al
proprio atto, era del  tutto  inesistente  ed  anzi  era  addirittura
pretestuosa. 
    Cio' importa, a modestissimo avviso di  chi  scrive,  una  palese
violazione dell'art. 24 della Costituzione. 
    La norma, al contrario, per l'ipotesi di accertamento in giudizio
dell'inesistenza manifesta  del  motivo  fondante  il  licenziamento,
dovrebbe considerare semplicemente che si e' di  fronte  ad  un  atto
espulsivo  del  tutto  illegittimo  e  provvedere,  conseguentemente,
prescindendo dall'etichetta impiegata (a  questo  punto  si  dovrebbe
dire pretestuosamente) dal datore di lavoro. 
    E la tutela non potrebbe che essere -  ex  art.  3,  primo  comma
della Costituzione - la stessa prevista per l'ipotesi identica in cui
il giudice accerti che difetta il fatto  posto  a  fondamento  di  un
licenziamento per giusta causa, ossia la reintegra. 
    Qui,  dunque,  vi  e'  un  incrocio  di   violazioni   di   norme
costituzionali (art. 24 e 3, primo comma della Costituzione) da parte
della disposizione in esame. 
  4°  Vizio:  contrasto  con  l'art.   111,   secondo   comma   della
Costituzione. 
    La disposizione costituzionale qui in  esame  prevede  che  «Ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge  ne  assicura
la ragionevole durata». 
    Si ritiene che fare assumere al giudice una decisione  innovativa
(in quanto esulante dall'ordinaria dinamica della  decisione  su  una
fattispecie di licenziamento, che prevede l'impugnazione di  un  atto
datoriale e che dovrebbe essere confinata a tale atto) di espellere o
meno un lavoratore che avrebbe  altrimenti  diritto  alla  reintegra,
avendo dimostrato  l'infondatezza  manifesta  del  licenziamento,  si
ponga in contrasto con la regola del giusto processo. 
    In  tal  modo,  infatti,  si  viene  a  richiedere  al   giudice,
nell'ambito di una controversia, di prendere le  veci  di  una  delle
parti, il datore di lavoro, per assumere in luogo di quest'ultimo una
decisione gestoria dell'impresa. 
    Cio' allontana il giudice dal suo ruolo di terzieta', che postula
l'alterita' dell'arbitro rispetto ai contendenti. 
    La norma, peraltro, nemmeno detta i criteri ai quali  il  giudice
dovrebbe attenersi, cio' che gli  consegna  un  potere  completamente
svincolato nei fini, anche superiore a quello che  la  legge  assegna
all'imprenditore  (e,  cosi'  facendo,  acuisce  ancora  di  piu'  il
contrasto  con  l'art.  111,  secondo   comma   della   Costituzione,
considerato come in tal modo il processo si allontana ancora di  piu'
dall'aggettivo «giusto»). 
    E  se  l'orientamento  maggioritario  della  S.C.,   come   sopra
descritto, permette di recuperare i criteri informatori della  scelta
giudiziale,  tali  criteri  vengono   ad   appalesare   vieppiu'   le
caratteristiche dell'opzione giudiziale («puo'») quale atto datoriale
vero e proprio, allontanando anche qui  il  fenomeno  processuale  in
esame dalle regole del giusto processo (terzieta'). 
8 - Conclusioni. 
    Sulla base di tutti i motivi sopra esposti,  si  chiede  pertanto
che  la  Corte  costituzionale  si  pronunci  per  l'abrogazione  del
potere-dovere del giudice di comminare - nell'ipotesi di accertamento
di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del G.M.O.  e
in luogo della reintegra  -  un  ulteriore  atto  di  espulsione  del
lavoratore dall'azienda, dovendo, sul punto, la disciplina  dell'art.
18, settimo comma, prevedere esclusivamente il dovere del giudice  di
reintegrare il lavoratore.